Referendum 8 e 9 giugno 2025: quale Italia scegliamo?

Il Paese al bivio tra diritti, flessibilità e inclusione. L’8 e il 9 giugno si vota su cinque quesiti referendari che affrontano il cuore delle tensioni sociali italiane
24 Aprile 2025
10 minuti di lettura
Referendum Si No

Italiani alle urne l’8 e il 9 giugno 2025 con una tornata referendaria che rappresenta molto più di un esercizio formale di democrazia diretta. È una consultazione che arriva in un momento di forti tensioni economiche, sociali e culturali. Gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti abrogativi che toccano ambiti sensibili come il diritto del lavoro, la sicurezza nei cantieri e la cittadinanza. Questioni che, sebbene tecniche nella forma, sono profondamente politiche nel contenuto.

I referendum sono stati indetti con i decreti del Presidente della Repubblica il 25 marzo 2025 e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale il 31 marzo. Per essere validi, dovranno superare il quorum: almeno la metà più uno degli aventi diritto dovranno recarsi ai seggi. In caso contrario, l’intera consultazione sarà nulla. Ma oltre alla validità giuridica, c’è un valore simbolico: partecipare significa scegliere quale tipo di società vogliamo costruire.

Come si vota e cosa sapere sul voto fuori sede

Per partecipare al referendum dell’8 e 9 giugno 2025, gli elettori dovranno recarsi al proprio seggio elettorale muniti di un documento di identità valido e della tessera elettorale. I seggi saranno aperti domenica 8 giugno dalle 7:00 alle 23:00 e lunedì 9 giugno dalle 7:00 alle 15:00. Ogni cittadino riceverà una scheda per ciascun quesito referendario, sulla quale potrà esprimere un voto barrando la casella del “Sì” (per abrogare la norma) o del “No” (per mantenerla).

Una novità importante riguarda la possibilità di voto fuori sede per motivi di studio, lavoro o cure mediche, introdotta per facilitare la partecipazione degli elettori temporaneamente domiciliati in un comune diverso da quello di residenza, per un periodo di almeno tre mesi. Per accedere a questa modalità, è necessario inviare una domanda al proprio comune di temporaneo domicilio entro il 4 maggio 2025, allegando copia di un documento d’identità, tessera elettorale personale e copia della certificazione o di altra documentazione che attesti la condizione di elettore fuori sede.

Maggiori dettagli sono disponibili sui siti ufficiali del Ministero dell’Interno e dei singoli comuni.

Jobs Act

Il primo quesito referendario – intitolato «Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione» – prende di mira il cuore del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi e introdotta nel 2015 attraverso il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Tale riforma ha rappresentato una svolta significativa nel sistema delle tutele per i lavoratori, soprattutto per coloro assunti con contratto a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015.

Al centro della questione vi è il contratto a tutele crescenti, pensato per favorire l’occupazione stabile attraverso un sistema di diritti che maturano nel tempo. Tuttavia, una delle modifiche più contestate riguarda la disciplina dei licenziamenti illegittimi: nelle imprese con più di 15 dipendenti, i lavoratori assunti con questo nuovo contratto, in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, non hanno più diritto al reintegro nel posto di lavoro, se non in casi eccezionalissimi (ad esempio, licenziamenti discriminatori o nulli). Al suo posto è previsto un indennizzo economico predeterminato, il cui ammontare è stabilito in base all’anzianità di servizio.

Il quesito referendario propone di abrogare integralmente il decreto legislativo n. 23/2015, eliminando l’impianto normativo delle tutele crescenti e ripristinando la tutela reale per tutti i lavoratori, inclusi quelli assunti dopo il 2015. Se approvato, il referendum reintrodurrebbe la possibilità per il giudice di ordinare il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa, come previsto prima della riforma.

Lo scontro tra favorevoli e contrari riflette una frattura profonda nella concezione del diritto del lavoro. Da un lato, i promotori dell’abrogazione denunciano una progressiva svalutazione delle tutele collettive, sottolineando come la trasformazione del licenziamento in un “costo calcolabile” abbia eroso il patto fiduciario tra lavoratore e impresa, minando la stabilità occupazionale. Dall’altro, i sostenitori del Jobs Act lo interpretano come una riforma necessaria e moderna, che ha reso il mercato del lavoro più flessibile e adatto alle esigenze delle imprese, facilitando l’ingresso dei giovani e alleggerendo gli oneri gestionali per i datori di lavoro.

In definitiva, il referendum riapre un confronto politico e culturale tra due visioni opposte: quella che difende la centralità della giurisdizione come strumento di equità nei rapporti di lavoro, e quella che privilegia la flessibilità contrattuale come leva per la competitività e l’adattamento all’evoluzione del mercato.

Piccole imprese

Il secondo quesito referendario – «Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità: Abrogazione parziale» – affronta una storica asimmetria del diritto del lavoro italiano, che riguarda i dipendenti delle imprese con meno di 15 dipendenti. Attualmente, in caso di licenziamento illegittimo in queste realtà aziendali, il lavoratore ha diritto a un’indennità economica fortemente limitata: la normativa fissa un risarcimento compreso tra un minimo e un massimo di 6 mensilità. Questo tetto può essere elevato, fino a un massimo di 14 mensilità, solo nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in aziende con più di 15 dipendenti e abbia una lunga anzianità di servizio (oltre i 20 anni).

Questa impostazione normativa, secondo i promotori del referendum, genera una disparità sostanziale: due lavoratori con identiche mansioni, licenziati senza giusta causa, possono ricevere trattamenti radicalmente diversi solo in funzione della dimensione dell’impresa. Il quesito referendario propone di abrogare le parti dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (modificata nel 1990) che fissano questi limiti, con l’obiettivo di restituire al giudice piena discrezionalità nella quantificazione dell’indennizzo. In altre parole, si chiede che la determinazione del risarcimento non sia più vincolata da soglie prefissate, ma modulata sulle circostanze concrete di ciascun caso, come già accade in altri ambiti del diritto del lavoro.

Secondo i promotori, questa riforma rappresenterebbe un principio basilare di equità: i diritti fondamentali non dovrebbero variare in base alla dimensione dell’impresa. Il superamento dei limiti normativi potrebbe offrire una tutela più effettiva a una fascia significativa di lavoratori – quella impiegata nelle micro e piccole imprese – che rappresenta una quota rilevante del tessuto produttivo italiano. Dall’altra parte, le associazioni datoriali e molte piccole imprese esprimono preoccupazioni concrete. Secondo loro, applicare alle microimprese le stesse regole previste per le grandi aziende potrebbe determinare gravi conseguenze economiche e organizzative. Il rischio evidenziato è quello di rendere l’assunzione di nuovi lavoratori più onerosa e incerta, con un possibile effetto dissuasivo sull’occupazione.

Il quesito, dunque, si colloca nel cuore del dibattito tra garanzie individuali e sostenibilità imprenditoriale, cercando di bilanciare tutela del lavoratore e realtà economica delle piccole aziende. Se approvato, eliminerebbe i vincoli normativi oggi in vigore e aprirebbe la strada a un sistema di giustizia più flessibile ma anche più esigente, in cui il giudice potrebbe riconoscere risarcimenti più congrui in caso di licenziamento senza giusta causa, indipendentemente dalla taglia aziendale.

Contratti a termine

Il terzo quesito referendario – «Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi» – affronta un nodo cruciale del mercato del lavoro italiano: l’uso sistematico, e spesso distorto, del contratto a tempo determinato. Nella sua forma originaria, questo strumento contrattuale nasceva per rispondere a esigenze produttive eccezionali o temporanee, ma nel tempo si è trasformato nella principale via d’accesso – e talvolta anche d’uscita – dal lavoro, perdendo la sua natura straordinaria.

Le successive modifiche legislative, in particolare a partire dal 2015, hanno progressivamente aumentato la flessibilità concessa alle imprese. Un passaggio chiave è rappresentato dalla possibilità, oggi vigente, di stipulare contratti a termine senza obbligo di causale per i primi 12 mesi, estendibili attraverso proroghe e rinnovi con giustificazioni spesso generiche, concordate tra le parti. Anche l’intervento del Decreto Dignità del 2018, pur avendo ristretto alcune maglie, non ha eliminato del tutto questa facoltà. Il risultato è un mercato del lavoro in cui la precarietà si è radicata in modo strutturale, generando instabilità diffusa soprattutto tra giovani e lavoratori nei settori a basso potere contrattuale.

Il quesito mira a una svolta normativa precisa e sostanziale: eliminare la possibilità di contratti a termine “acausali”, cioè privi di una motivazione concreta, sin dal primo giorno di assunzione. In caso di approvazione, ogni contratto a tempo determinato dovrà essere giustificato da esigenze produttive, organizzative o sostitutive effettive, limitando così l’autonomia contrattuale oggi concessa alle parti. Inoltre, il testo sottoposto a referendum propone di abrogare parte dell’articolo 19 del d.lgs. 81/2015 e dell’articolo 21, comma 01, ridisegnando la disciplina del lavoro a termine con l’obiettivo dichiarato di contrastare gli abusi e incentivare forme occupazionali più stabili e dignitose.

Dal punto di vista delle imprese, questa restrizione potrebbe rappresentare un vincolo gestionale rilevante, soprattutto in contesti economici incerti o nei settori a domanda stagionale. Tuttavia, i promotori ribattono che una maggiore stabilità contrattuale genera benefici anche in termini di produttività, motivazione dei lavoratori e coesione sociale.

La questione centrale, quindi, resta aperta e profondamente politica: un mercato del lavoro basato su contratti a termine senza causale è davvero competitivo, o semplicemente più vulnerabile, diseguale e ingiusto? Il quesito referendario invita a riflettere su quale modello occupazionale vogliamo promuovere – uno fondato sulla flessibilità estrema, o uno che investa sulla qualità e continuità del lavoro.

Chi paga il prezzo della sicurezza?

Il quarto quesito referendario affronta un tema cruciale per la tutela del lavoro e la prevenzione degli infortuni negli appalti: la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e subappaltatore. Il quesito propone l’abrogazione della clausola prevista dall’articolo 26, comma 4, del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (D.lgs. 81/2008), che oggi esclude la responsabilità del committente per i danni subiti dai lavoratori in conseguenza di rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.

Nel sistema attuale, quindi, un committente può essere sollevato da responsabilità anche in caso di infortunio grave, purché l’incidente sia riconducibile alla natura tecnica dell’attività delegata. Questa esclusione è vista da molti come una zona grigia che di fatto attenua gli obblighi di vigilanza e controllo a carico del committente, creando – secondo i promotori del referendum – un “pericoloso scudo giuridico” che depotenzia le misure di prevenzione e riduce l’accountability nella filiera degli appalti.

Con la modifica proposta, si intende reintrodurre la responsabilità solidale del committente anche nei casi legati ai rischi specifici dell’attività dell’appaltatore, rafforzando così un principio fondamentale: la sicurezza dei lavoratori non è un onere trasferibile. Se più soggetti traggono beneficio da un’opera, devono anche condividere la responsabilità di garantire condizioni di lavoro sicure e dignitose. La logica è chiara: solo attribuendo una responsabilità piena e non derogabile si può incentivare un controllo effettivo lungo tutta la catena degli appalti.

La riforma avrebbe implicazioni rilevanti. In primo luogo, rappresenterebbe un incentivo forte per i committenti a selezionare con maggiore attenzione le imprese a cui affidano lavori in appalto o subappalto, valutandone non solo il costo ma anche il livello di organizzazione in materia di sicurezza. In secondo luogo, la possibilità di ricondurre la responsabilità anche ai committenti potrebbe contribuire a diminuire il numero degli incidenti sul lavoro, che restano ancora oggi una piaga strutturale del mercato italiano. Ogni giorno, infatti, si verificano infortuni evitabili, spesso legati a cattive prassi, mancati controlli o risparmi impropri sui costi di sicurezza.

D’altro canto, le associazioni datoriali esprimono preoccupazioni per un possibile irrigidimento del quadro normativo, temendo che l’estensione della responsabilità possa scoraggiare l’uso degli appalti e aumentare il contenzioso. In un mercato già segnato da margini ridotti e dinamiche competitive forti, alcune imprese paventano che la riforma possa incidere negativamente sulla flessibilità operativa e sulla competitività, soprattutto per le pmi.

La domanda fondamentale del quesito rimane: in nome della semplificazione, possiamo davvero permetterci di allentare i vincoli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro? La risposta richiede un bilanciamento tra tutela effettiva dei diritti dei lavoratori e sostenibilità delle regole per il sistema produttivo. Ma una cosa è certa: in un contesto in cui l’Italia continua a registrare un alto numero di morti sul lavoro, ogni intervento normativo che rafforzi la cultura della prevenzione merita attenzione, soprattutto quando mira a responsabilizzare chi beneficia direttamente delle prestazioni svolte in regime di appalto.

Cittadinanza: essere italiani dopo cinque anni?

Il quinto quesito referendario tocca un nodo cruciale dell’identità giuridica e culturale nazionale: la cittadinanza. Il suo contenuto ha un valore simbolico e pratico molto elevato, poiché mira a modificare l’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, riducendo da dieci a cinque anni il periodo minimo di residenza legale continuativa richiesto a uno straniero maggiorenne non comunitario per presentare domanda di cittadinanza italiana per naturalizzazione. Un cambiamento normativo che riguarda decine di migliaia di persone stabilmente residenti nel nostro Paese, molte delle quali già pienamente inserite nel tessuto sociale, economico e culturale.

Oggi, la normativa vigente impone uno dei termini più lunghi in Europa per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione. Il requisito dei 10 anni, introdotto con l’intento di garantire un legame solido e duraturo tra lo straniero e l’Italia, è spesso percepito come una soglia troppo alta, non sempre proporzionata alla reale partecipazione del soggetto alla vita della comunità. Il quesito referendario propone di abrogare la lettera f) del comma 1 dell’articolo 9, e contestualmente di eliminare anche il vincolo riferito all’adozione, così da estendere in via automatica la cittadinanza ai figli minorenni dei nuovi cittadini, indipendentemente dalla modalità con cui sono entrati nel nucleo familiare.

Questa doppia modifica, se approvata, renderebbe il sistema di accesso alla cittadinanza più in linea con i cambiamenti demografici e sociali del Paese, riducendo gli ostacoli burocratici e legali che oggi rallentano l’integrazione piena di chi, di fatto, è già parte della collettività. I promotori sostengono che la riforma riconoscerebbe formalmente ciò che è già realtà: migliaia di stranieri che vivono in Italia da anni, che pagano le tasse, lavorano, mandano i figli a scuola e partecipano attivamente alla vita delle città.

Dal punto di vista dei sostenitori, si tratta di un passo concreto verso un modello di cittadinanza inclusiva e moderna, capace di valorizzare il contributo degli stranieri alla crescita del Paese. La cittadinanza, in quest’ottica, non sarebbe più solo l’esito di un lungo percorso giuridico, ma anche il riconoscimento di un’appartenenza reale, costruita nel tempo e testimoniata dai fatti. I critici, tuttavia, temono che questa riforma possa trasformare la cittadinanza in un automatismo privo di profondità identitaria, svuotando di significato l’idea di appartenenza nazionale. Secondo loro, ridurre i tempi potrebbe incentivare richieste opportunistiche, non fondate su un reale radicamento.

Resta però centrale una domanda etica e politica: se uno straniero risiede legalmente da anni, rispetta le leggi, contribuisce al benessere collettivo e cresce figli italiani, su quale base può essere escluso ancora dal pieno riconoscimento dei suoi diritti? In un’Italia sempre più multiculturale, il quesito solleva interrogativi profondi sul rapporto tra cittadinanza e partecipazione, appartenenza e inclusione.

Il peso del voto e il rischio dell’astensione

Oltre il merito dei quesiti, il referendum del 2025 interpella il Paese su un piano più profondo: quale visione di società vogliamo costruire? Un’Italia che mette al centro i diritti dei lavoratori e l’inclusione dei nuovi cittadini, o un’Italia che difende la flessibilità e l’autonomia delle imprese?

Il raggiungimento del quorum sarà decisivo. Se meno del 50% più uno degli aventi diritto si recherà alle urne, l’intero processo verrà vanificato. Se il quorum non si raggiunge, tutto resta com’è. Se si vota, qualcosa può cambiare.

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