3 delle 4 regioni Ue con la più bassa occupazione sono del Sud Italia

Italia fanalino di coda dell’Europa, Mezzogiorno fanalino di coda dell’Italia: tra Bolzano e la Calabria gap occupazionale vicino al 30%
23 Aprile 2025
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Giovane Triste Canva

Tra le quattro regioni italiane messe peggio per occupazione, tre sono italiane: Calabria, Campania e Sicilia. Lo certifica l’ultimo rapporto Eurostat, che riguarda l’occupazione nell’Ue nel 2024 e analizza sia i singoli Paesi che le regioni.

I dati mostrano un doppio gap: quello tra l’Ue e l’Italia e quello tra l’Italia e il Mezzogiorno, dove il lavoro manca soprattutto se a cercarlo sono le donne.

Il Sud Italia in fondo alla classifica europea

Calabria, Campania e Sicilia si collocano agli ultimi gradini dell’intera Unione Europea con tassi di occupazione pari rispettivamente al 44,8%, 45,4% e 46,8% contro una media europea del 70,8%. Poco meglio la Puglia con un tasso di occupazione del 51%.

Solo la Guyana francese – tecnicamente parte dell’Ue ma geograficamente situata in Sudamerica – fa peggio di Calabria, Campania e Sicilia, con un’occupazione ferma al 42,4%.

Per trovare territori europei con performance simili bisogna guardare alle enclave spagnole di Melilla e Ceuta in Nord Africa o all’isola francese di La Réunion nell’Oceano Indiano. La prima regione geograficamente situata nel continente europeo con percentuali paragonabili è la Tessaglia greca, che con il suo 58,4% risulta comunque sensibilmente più dinamica delle tre regioni italiane.

Il dato assume contorni ancora più preoccupanti se si considera che l’Italia, nel suo complesso, è già fanalino di coda nell’Unione con un tasso di occupazione al 62,2% – l’unico sotto la soglia del 65% tra tutti i Paesi membri.

Il Nord che guarda all’Europa

In netto contrasto con il Mezzogiorno, le regioni settentrionali mostrano un volto completamente diverso. La Provincia autonoma di Bolzano brilla con un 74,2% che la colloca tra le aree più dinamiche d’Europa. Seguono Valle d’Aosta (72,1%), Provincia di Trento (71,2%) e Toscana (70,9%) – tutte sopra la media europea del 70,8%.

Appena sotto questa soglia troviamo Emilia-Romagna (70,3%), Veneto (70,2%), Friuli-Venezia Giulia (69,4%) e Lombardia (69%). Un’Italia che funziona e che riesce a competere con le regioni più sviluppate del continente.

Tra questi due mondi si apre però un abisso: quasi trenta punti percentuali separano Bolzano dalla Calabria, come se si trattasse di due Paesi distinti.

Il gender gap aggrava il divario

Se il quadro generale appare critico, quello dell’occupazione femminile assume toni quasi drammatici. Con un misero 32,2%, la Campania si posiziona all’ultimo posto assoluto in Europa per donne occupate. Seguono ancora una volta Calabria e Sicilia, mentre la media italiana si attesta al 53,3% – ben lontana dal 66% europeo. In pratica, nelle regioni meridionali solo una donna su tre in età lavorativa ha effettivamente un impiego. Un dato che non parla solo di economia, ma di un’intera struttura sociale che fatica a integrare le donne nel mondo del lavoro.

Secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum, l’Italia si colloca al 79° posto nella classifica globale sulla parità di genere, registrando un significativo divario nel mercato del lavoro. Vita privata e professionale si intrecciano: nel 2022 oltre 44 mila donne hanno lasciato il lavoro, spesso dopo essere diventate madri come conferma il 72,8% delle dimissioni convalidate.

Non solo: quando lavorano, le donne guadagnano in media il 18% in meno rispetto agli uomini e questa percentuale sale al 25% tra le lavoratrici autonome.

Per comprendere meglio l’entità di questa discriminazione si può procedere al contrario sfruttando i dati diffusi dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre: l’Italia è il Paese europeo con il peggior tassi di occupazione femminile e allo stesso tempo quello con il maggior numero di donne imprenditrici in valore assoluto, nonostante ci siano Paesi europei più popolosi. In Italia solo una donna su due trova lavoro presso le aziende (52,5% delle donne in età lavorativa), mentre, nel 2023, 1.610.000 donne italiane hanno avviato attività come artigiane, commercianti o libere professioniste. In senso assoluto più di Francia e Germania, rispettivamente con 1.433.100 e 1.294.100 lavoratrici autonome.

Il fatto che, rispetto alle altre cittadine europee, le donne italiane siano più propense a mettersi in proprio dimostra quanto sia necessario intervenire sul work-life balance. Spesso, per una donna italiana, avviare un’attività autonoma è l’unica strada per poter conciliare gli impegni professionali con la cura della famiglia perché non è tenuta a rispettare ritmi e orari decisi da altri.

La stagnazione di un decennio

Ciò che più colpisce della bassa occupazione italiana è la persistenza del fenomeno. Nonostante i proclami politici e gli interventi susseguitisi negli anni, la situazione appare sostanzialmente immutata rispetto al 2015. Già allora, escludendo i territori d’oltremare, Calabria, Campania e Sicilia occupavano gli ultimi posti della classifica europea.

È vero che l’occupazione italiana è cresciuta leggermente più della media Ue negli ultimi anni – dal 59% del 2019 al 62,2% attuale – ma questa crescita non ha modificato gli equilibri interni né colmato il divario con l’Europa. L’Italia resta un Paese diviso e il Mezzogiorno continua a rappresentare una delle aree economicamente più fragili dell’intero continente.

Nel gennaio 2025, la Commissione europea ha approvato un fondo da 1,1 miliardi di euro, finanziato in parte dal Fondo Sociale Europeo Plus, destinato specificamente a incentivare l’occupazione stabile di donne e giovani nel Mezzogiorno. La misura è stata presentata come “necessaria e adeguata” proprio per colmare il divario strutturale, e la Commissione ha sottolineato la proporzionalità e la necessità di evitare abusi, segnalando così implicitamente la gravità della situazione italiana. Anche l’Inps ha sottolineato che il Paese “investire su quelle risorse umane che ancora oggi non sono pienamente attive come forza lavoro, pensando ai giovani in primis, alle donne e ai lavoratori anziani”. L’Istituto di previdenza ha sottolineato l’importanza di intervenire in tal senso durante l’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica.

I dati Eurostat dimostrano che non basta creare nuovi posti di lavoro: servono interventi strutturali per ridurre un divario territoriale che rischia di diventare una frattura permanente.

Intanto, tre regioni italiane restano inchiodate a tassi occupazionali che sembrano appartenere a un’altra epoca. Un paradosso per un Paese fondatore dell’Unione e seconda manifattura del continente, ma soprattutto una ferita sociale che, dopo decenni di politiche insufficienti, resta drammaticamente aperta.

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